domenica 2 giugno 2013

Più energia per il Dragone

Cosa succederebbe (o succederà) se la Cina, con la sua fame di energia, si buttasse (o butterà) sullo shale-gas?
Guido Plutino del Sole24Ore prova a dare una risposta.

Buona lettura.


Per usare un’espressione ormai entrata a pieno titolo nel lessico comune, anche il mondo dell’energia sta attraversando “terre incognite”. Data la grande rilevanza di questo settore, cercare di orientarsi in uno scenario in rapida evoluzione è importante anche in termini di scelte di asset allocation e delle conseguenti possibilità di guadagno.
Naturalmente il riferimento principale è alla rivoluzione in corso, legata alla scoperta di larghe disponibilità di risorse di petrolio e gas “scisto” (shale oil e shale gas). Questo nuovo fattore ha modificato in profondità e probabilmente in modo permanente gli equilibri dell’economia globale, data l’importanza delle quantità in gioco e la rilevanza delle aree nelle quali si trovano.
Come è ormai noto, in questo processo gli Stati Uniti sono in prima fila. Inoltre un aspetto interessante per gli assetti complessivi del mercato è rappresentato dal fatto che le risorse estratte dalle rocce profonde per ora passano quasi interamente “dal produttore al consumatore”.
I Paesi che hanno avviato lo sfruttamento con questa tecnica di estrazione consumano quasi integralmente al loro interno le risorse energetiche ottenute (il che rappresenta anche un vantaggio competitivo per agganciare la ripresa), muovendosi rapidamente verso il traguardo dell’autosufficienza. Nel caso degli Stati Uniti, come prevede lo studio Us energy independence di Société Générale, la quasi totale indipendenza energetica potrebbe essere raggiunta entro il 2020.
A differenza delle risorse provenienti dai giacimenti tradizionali, per il momento le quantità messe in vendita nel circuito internazionale sono dunque ridotte. Questo evita il pericolo di alimentare una già elevata finanziarizzazione del settore moltiplicando ulteriormente i “barili di carta”.
Fin qui i punti già (relativamente) chiari. Tuttavia, data la crescente rilevanza del fenomeno, molti altri aspetti di pari importanza restano da comprendere e da misurare nei loro effetti. Anche dal punto di vista degli investitori, forse il principale riguarda l’estensione geografica della rivoluzione shale: riguarderà solo l’economia e le aziende statunitensi? E in caso contrario, fin dove si spingerà?
Le risorse da scisto sono presenti in grandi quantità in 32 Stati, dall’Europa all’Africa, per un totale stimato in oltre 6 volte quello relativo agli Usa. Ciò però al netto della non irrilevante questione della qualità. «Nei bacini americani – spiega infatti Nicolò Carpaneda, investment specialist di M&G – le rocce sono spesso più vicine alla superficie, quindi più facilmente raggiungibili, e più porose, il che facilita l’estrazione del gas, mentre in altre aree le riserve sono più profonde e meno accessibili, con conseguenti problemi tecnici e aumento dei costi».
La zona meno promettente (per ragioni di diversa natura, da quelle giuridiche a quelle legate a sensibilità ambientali) è l’Europa, dove infatti la maggior parte delle operazioni di perforazione è stata sospesa o vietata.
Ma ancora una volta, l’elemento centrale da considerare è l’Impero del Dragone. «In Cina prevale l’euforia – riprende Carpaneda – e gli sviluppi positivi non mancano. L’opinione pubblica locale è ancora scossa dai recenti dati sulla pessima qualità dell’aria in molte città. Il Paese, che secondo le stime ha le maggiori riserve di gas scisto a livello mondiale, si sta muovendo verso fonti più pulite e ha una fame tremenda di energia. Il problema principale, in Cina come altrove, consisterà nella scelta della tecnologia più efficace per lo sfruttamento di risorse difficili da raggiungere».
Il nodo della questione si chiama fracking, termine che indica il procedimento per fratturare le rocce ed estrarre gas e petrolio. Si tratta di una tecnica estremamente costosa e ancora in via di perfezionamento: tra il 2008 e il 2012 si stima che negli Usa abbia richiesto investimenti per circa 150 miliardi di dollari. Una parte rilevante di questo denaro è stata investita da soggetti stranieri e, tra questi, i maggiori contributor sono proprio le imprese cinesi, a caccia di competenze da riutilizzare in patria oltre che di buoni affari.
Un eventuale successo cinese nello sfruttamento di shale gas e shale oil rivoluzionerebbe integralmente lo scenario dell’economia mondiale. È ancora difficile prevedere se e quando questo avverrà, dal momento che sono in gioco numerosi fattori tecnici, politici e di mercato. «Ma proviamo a immaginare uno scenario che non è poi così remoto – conclude Carpaneda -: nel lungo periodo il gas di scisto americano potrebbe rendere meno di quanto si speri, mentre in Cina e in Europa lo sfruttamento di queste risorse potrebbe accelerare, rimodellando non solo il mercato dell’energia, ma anche gli equilibri commerciali e geopolitici mondiali».
Il risparmiatore medio italiano, con un portafoglio quasi interamente impiegato in strumenti nazionali e fortemente sbilanciato su prodotti di liquidità, è avvertito.

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